giovedì 21 ottobre 2010

Vita e opere del canonico Giovanni Spano

Giovanni Spano, nato a Ploaghe l'8 marzo 1803 da una famiglia di agiati possidenti, fu un pensatore coraggioso e moderno. Si occupò di tutto ciò che poteva attirare la sua immensa curiosità, esercitando i suoi vasti interessi culturali in molteplici ambiti disciplinari, tanto da poter essere considerato l'iniziatore degli studi sardi e sulla Sardegna. Fu il primo studioso ad occuparsi di archeologia scientifica in Sardegna. È lui stesso a raccontare in una autobiografia (pubblicata a puntate sulla rivista "La Stella di Sardegna", fondata a Sassari nel 1875 da Enrico Costa) le vicende che lo videro protagonista, a partire dalla sua vita di scolaro. A nove anni venne, infatti, condotto a Sassari per frequentare la scuola degli Scolopi.Successivamente, presso il Seminario Tridentino, conseguì il titolo di Magister artium liberalium e, nel 1825, la laurea in teologia. Imparò l'italiano, il latino, il greco, l'ebraico, il caldeo, l'arabo e tutti i dialetti della Sardegna.

Nel 1827 fu ordinato sacerdote e nel 1831 si trasferì a Roma. Qui coltivò i suoi studi di antichistica, di Sacra Scrittura e di lingue orientali, ed entrò in contatto con alcuni illustri maestri.

Nel 1834 fu nominato professore di Sacra Scrittura e di Lingue orientali nell'Università di Cagliari. Instaurati, da subito, buoni rapporti con i maggiori intellettuali dell'epoca, iniziò a seguire, sui libri e con frequenti viaggi nel territorio, i due filoni che maggiormente lo attraevano: la lingua e l'archeologia della Sardegna. Nel 1835 iniziò, infatti, le sue esplorazioni archeologiche nell'isola, ma l'esigenza di confrontare le sue osservazioni con altri studiosi lo spinse a compiere un lungo viaggio in diverse città italiane. Nel 1836, rientrato in Sardegna, avviò le prime campagne di scavo in alcuni siti e affrontò il problema dell'antichità dei nuraghi. Contemporaneamente proseguiva i suoi studi sulla lingua sarda. Nel 1839 fu nominato direttore della Biblioteca dell'Università di Cagliari, della quale rinnovò gli ordinamenti. Accusato dal Magistrato degli studi, di trascurare l'insegnamento della Sacra Scrittura per dedicarsi alla lingua e alla poesia sarde, gli fu ridotto lo stipendio. Fu, perciò, costretto, nel 1842, a lasciare la direzione della biblioteca. Ma la nomina a canonico, e l'assegnazione della prebenda di Villaspeciosa, gli consentì di svincolarsi dalle preoccupazioni economiche e di dedicarsi ai suoi studi.

Fu in costante contatto con studiosi di ogni parte d'Europa, con una fitta corrispondenza testimoniata da circa 2500 lettere, ora custodite nella Biblioteca Universitaria di Cagliari. Iniziò a scavare in varie località, fra cui Nora, Ploaghe, Lanusei e, contemporaneamente seguì i suoi studi nel settore della lingua, iniziando la stesura del suo Dizionario. Con la "fusione perfetta" ebbe delle difficoltà a mantenere la sua prebenda, ma tuttavia continuò nella sua attività scientifica e negli scavi in diverse parti della Sardegna, acquistando fama internazionale. Nel 1854 fu chiamato a presiedere il Convitto e Collegio di Santa Teresa e fondò il "Bullettino Archeologico sardo"; nel 1857 divenne rettore dell'Università. Attivissimo, nel 1860 fece istituire a Cagliari la Facoltà di Lettere, che però venne chiusa poco dopo per mancanza di studenti; negli stessi anni diede impulso al "Bullettino Archeologico", che uscì fino al 1865, avvalendosi della collaborazione di studiosi di fama internazionale, e raccolse anche un notevole numero delle sue pubblicazioni. Cessato il suo incarico di rettore nel 1868, continuò a occuparsi dei suoi studi, dando vita al periodico "Scoperte archeologiche", che pubblicò fino al 1876. Nel corso delle sue ricerche mise insieme una ricchissima collezione di oggetti, frutto di scavi archeologici, e di quadri che donò ai musei di Cagliari e di Sassari.

Nel 1871 fu nominato senatore del Regno per i suoi meriti scientifici. Tuttavia non si recò mai in Senato e non prestò mai giuramento al re d'Italia. Come sacerdote non poteva, infatti, non essere solidale con il pontefice Pio IX: la proclamazione di Roma a capitale d'Italia sottraeva ai papi un potere detenuto da oltre un millennio.

I suoi scritti sono particolarmente numerosI: oltre agli studi di carattere archeologico ha pubblicato anche una miriade di opere dedicate alla lingua sarda (Ortografia sarda nazionale, Cagliari, 1840; Vocabolario sardo-italiano e italiano sardo, vol. I, Cagliari, 1851) e pubblicazioni di tipo filologico.

Giovanni Spano merita di essere ricordato non solo per aver svelato le origini e le ragioni culturali della nazione sarda, ma anche per la ferrea volontà di documentarsi, di approfondire le discipline nelle quali fu precursore oltre i confini della sua isola e per aver contribuito a recuperare il ritardo storico della Sardegna.

Nella primavera del 1877 si manifestarono i gravi problemi di salute che il 3 aprile 1878 lo portarono alla morte.

Il sepolcro intitolato al canonico Giovanni Spano si trova all'interno del cimitero monumentale di Bonaria, sul lato nord. Il monumento funebre riutilizza un ritrovamento di epoca romana dovuto allo stesso studioso. Progettato dal canonico nove anni prima della sua morte, come recita una delle iscrizioni apposte sul fronte («Iohannes Spanus vivus sibi fecit… MDCCCLXIX»), è composto di un sarcofago romano sorretto da quattro colonne e sormontato da un busto marmoreo del defunto attribuito a Giuseppe Sartorio.

giovedì 27 maggio 2010

Il tesoro di Morgantina

Il Metropolitan Museum di New York ha recentemente restituito al nostro paese il cosiddetto “Tesoro di Morgantina”, costituito da sedici oggetti in argento databili al III secolo a.C.

Morgantina è un sito archeologico alle porte del paesino di Aidone, in provincia di Enna. Venne fondata nella Sicilia sud-orientale dal popolo dei Morgeti, che poi furono assorbiti dai Greci e, tra i secoli IV e III a.C., ricadeva nell'orbita della potente città di Siracusa. A riprova di ciò, il tesoro degli argenti sarebbe stato forgiato sotto il regno del tiranno siracusano Ierone II (275-215 a.C.). L'ultimo suo proprietario sarebbe stato Eupolemo, il cui nome è ancora impresso su uno dei reperti. Si tratta di oggetti “da mensa”, come le coppe con piedi a forma di maschere teatrali per mescolare il vino con l'acqua, la brocchetta e l'attingitoio, altre quattro coppe e la tazza a due anse per bere, e di altri manufatti con funzione sacra e votiva. Tra i reperti più pregiati ci sono il piatto ombelicato (phiale mesomphalos), con cui venivano versati i liquidi durante la celebrazione di sacrifici, il piccolo altare cilindrico (bomiskos) decorato con ghirlande e i due contenitori per profumi ed essenze (pissidi) con coperchio decorato.

I sedici argenti (alcuni formati da più pezzi, che portano il totale a ventuno), furono trovati da scavatori clandestini e venduti in due tranche: la prima tra il 1981 e il 1982, la seconda nel 1984. Oggi, finalmente, grazie alle indagini dei Carabinieri del Nucleo per la tutela del patrimonio culturale, i preziosi reperti sono rientrati in Italia e, dopo essere stati esposti sino al 23 maggio al Museo Nazionale Romano, di Roma, saranno trasferiti al Museo Archeologico Regionale “Antonio Salinas” di Palermo.

sabato 14 novembre 2009

Trieste: la sua storia e i suoi monumenti


Trieste si affaccia sull'omonimo golfo, nella parte più settentrionale dell'Alto Adriatico, nell'estremo nord-est italiano. Il territorio cittadino è occupato in prevalenza da un pendio collinare che diventa montagna nelle zone limitrofe all'abitato.

L'antica Tergeste originariamente centro dei Galli Carni, divenne colonia sotto Augusto. Nell'alto Medioevo fu successivamente sotto i Goti, i Bizantini (539), i Longobardi (590, 752-774), i Franchi (787). Organizzatasi a libero Comune (1060), più volte sotto il dominio di Venezia (1202, 1285, 1369), passò nel 1382 agli Asburgo, rimanendo sotto il dominio asburgico fino al 1918, quando fu liberata dalle truppe italiane (3 novembre). In seguito alla seconda guerra mondiale, fu occupata (maggio 1945) dalla Iugoslavia e dalle truppe anglo-americane (giugno 1945). Per risolvere la questione delle frontiere tra Iugoslavia e Italia, fu costituito il Territorio Libero di Trieste (trattato di pace, Parigi 1947), comprendente due zone: zona A (Trieste e Muggia) sotto amministrazione anglo-americana, zona B (Capodistria, Pirano e Buie) sotto amministrazione iugoslava. In seguito a grave tensione tra Iugoslavia e Italia, l'accordo tra i due paesi concluso a Londra nel 1954 (Memorandum d’intesa) stabilì di affidare l’amministrazione delle due zone rispettivamente all’Italia e alla Iugoslavia.

I principali monumenti della città
Il Castello di Miramare. Venne costruito per volontà di Massimiliano d'Asburgo, fratello minore dell'imperatore d'Austria Francesco Giuseppe. È circondato da un ampio parco, dove furono trapiantate le più importanti specie di piante provenienti dai quattro continenti.

Il Colle di San Giusto. Su questo colle che domina la città, si possono visitare i resti dell'antico Foro romano, il Castello di San Giusto, la Cattedrale di San Giusto, che custodisce le spoglie del Patrono di Trieste (S. Giusto) e l'alabarda di San Sergio, simbolo della città.

Il Teatro romano. Si trova ai piedi del colle di San Giusto e risale al I-II secolo d.C. Poteva ospitare circa 6.000 spettatori e fu, probabilmente, costruito per volontà di Quinto Petronio Modesto, procuratore dell’imperatore Traiano. Nei secoli venne poi nascosto dalle case che vi sorsero sopra e fu riportato alla luce solo nel 1938.

Piazza dell'Unità d'Italia. La piazza, affacciata sul mare, è circondata da splendidi palazzi in stile neoclassico: il Comune di Trieste, il palazzo del Governo, il palazzo Lloyd.

Le Chiese di Trieste. Crocevia di culture provenienti dai vari Paesi dell'est e del nord Europa Trieste ospita Chiese di diversi culti religiosi, quali la chiesa serbo ortodossa di San Spiridione, la Chiesa greco ortodossa di San Nicolò, la Chiesa evangelica di Largo Panfili, il Tempio israelitico.

Il Faro della vittoria. Il faro venne costruito in onore dei caduti sul mare. Grazie alla sua portata luminosa è uno dei fari più potenti dell'adriatico.

La Risiera di San Sabba. Durante l'occupazione nazista la risiera di San Sabba fu trasformata in un campo di sterminio, l'unico in territorio italiano. Qui, nei forni crematori trovarono la morte migliaia di persone. Della struttura rimangono due edifici e le celle dove venivano internati i prigionieri. Una galleria fotografica testimonia l'orrore di quei terribili anni.

mercoledì 22 luglio 2009

L'Arciere sulcitano

Il Cleveland Museum of Art (Ohio) ha restituito all'Italia 14 reperti, trafugati dai tombaroli ed usciti illegalmente dal nostro paese, grazie a un'operazione voluta e realizzata da Carabinieri, Avvocatura dello Stato, Ministero dei Beni culturali, Magistratura, e resa possibile, ovviamente, dalla disponibilità del museo statunitense. Fra questi spicca un bronzetto di età nuragica, databile al IX-VIII secolo a.C., che raffigura un arciere con l'arco in spalla. Il reperto fu probabilmente trovato da qualche tombarolo presso il complesso nuragico di Grutt'e Acqua, nell'isola di Sant'Antioco, dove presto ritornerà per essere definitivamente esposto nel Museo Archeologico Comunale "Ferruccio Barreca". Subito ribattezzato "Arciere sulcitano", si distingue per la sua eccezionale fattura e per le sue ragguardevoli dimensioni, ben ventidue centimetri di altezza contro i dieci-quindici della media degli altri bronzetti. Esso raffigura un un soldato dotato di elmo sormontato da grandi corna di bue, con una arco nella mano sinistra e la destra alzata in segno di benedizione.

I cosiddetti "bronzetti" nuragici sono stati rinvenuti principalmente all'interno o in prossimità degli antichi luoghi di culto dell'epoca, quali soprattutto i ben noti "templi a pozzo". I bronzetti, che raffiguravano divinità o personaggi offerenti oppure oggetti legati al prestigio o alla vita quotidiana, erano offerti al tempio probabilmente sia per impetrare una grazia sia come ex-voto. Il numero dei bronzetti noti non raggiunge i 700 esemplari, anche se il numero di quelli falsi è considerevole e trova ospitalità anche presso prestigiosi musei europei e ricche collezioni private.

Il tesoro di Misurata torna a risplendere

Il più grande tesoro monetale romano, ritrovato nel 1981 a Misurata, in Libia, è fruibile in tutto il suo splendore grazie al lavoro dell'Istituto per le tecnologie applicate ai beni culturali (Itabc) del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), che ha coordinato il restauro, lo studio storico, l'analisi composizionale e la digitalizzazione di questo patrimonio. Il tesoro, composto da 108 mila monete, fu rinvenuto casualmente durante l'esecuzione di lavori agricoli, dentro grossi vasi (olle, brocche, anfore), sotterrati in prossimità di due edifici, facenti parte forse di un luogo di cambio dei cavalli del cursus publicus - il servizio per il trasporto di merci o plichi appartenenti allo Stato - e di persone che viaggiavano per conto dell'amministrazione centrale. Databili tra il 294 e il 333 d.C., queste monete sono nummi (folles), ossia prodotti con una lega rame-stagno-piombo comprendente una piccola quantità di argento, caratterizzati da un arricchimento superficiale sottilissimo con il medesimo metallo. Anche se non è da escludere che il tesoro dovesse essere costituito da un numero maggiore di esemplari, si tratta più grande ritrovamento non solo di epoca romana, ma, probabilmente, di tutto il mondo antico. Oltre che per le dimensioni il rinvenimento si distingue perchè che getta nuova luce sia sulla storia dell'economia e della circolazione monetaria in Tripolitania nella prima metà del IV secolo d.C., sia sulla metallurgia e la tecnologia della produzione monetale di quel periodo.
Ma a chi apparteneva questo patrimonio? Si possono avanzare due ipotesi: il tesoro potrebbe essere il contenuto di una cassa destinata a erogare pagamenti oppure al ritiro di monete messe "fuori corso" anche al fine di recuperarne, mediante rifusione, il contenuto in argento.

Le monete, a partire dal 2007, sono state oggetto di un'accurata serie di analisi fisiche non distruttive, volte a definire la percentuale del contenuto in argento nella lega e a precisare, in associazione con altri metodi di indagine, la tecnologia di fabbricazione, elementi che aiutano a ricostruire l'inflazione e le periodiche crisi economiche e monetarie che travagliarono in quei decenni l'impero romano. Le misure si basano sull'utilizzo di sorgenti radioattive messe a disposizione dai laboratori del Cnr e dell'Istituto nazionale di fisica nucleare.

martedì 14 luglio 2009

Un'antica icona di San Paolo nelle catacombe di Santa Tecla a Roma

A Roma nelle catacombe di Santa Tecla, sulla via Ostiense, è stata scoperta una icona raffigurante San Paolo, risalente al IV secolo d.C. I restauratori che lavorano da oltre un anno al restauro delle catacombe, nel ripulire con il laser la patina calcarea che ricopre la volta dell'ipogeo, hanno messo in luce il volto di San Paolo: l'ovale magro, gli occhi grandi e profondi, la calvizie incipiente, la fronte ampia solcata da rughe di riflessione, la barba lunga a punta, insomma l'Apostolo raffigurato con i tratti tipici del pensatore e in particolare di Plotino, filosofo di riferimento della tarda antichità.

Quando fu affrescato, alla fine del IV secolo, Agostino non aveva ancora scritto Le Confessioni, quell'immagine di San Paolo riservata al culto è la più antica icona dell'apostolo finora conosciuta. La scoperta risale al il 19 giugno 2009 e rappresenta un evento straordinario che suggella in modo inatteso e sorprendente la conclusione dell'anno giubilare dedicato a San Paolo.

Le catacombe di Santa Tecla, lungo la via Ostiense, poco distanti dalla Basilica di San Paolo fuori le mura, sono note dal Settecento. Ė una catacomba comunitaria, vi si trovano i resti di centinaia di cristiani che vollero farsi seppellire vicino a Santa Tecla, una martire romana che non va confusa con la santa omonima amica di San Paolo, protagonista dell'antico apocrifo Acta Pauli et Theclae. Sulla volta c'è il viso di San Paolo, circondato un cerchio (clipeo) giallo oro su rosso vivo e, accanto, un altro ritratto di San Pietro, la «roccia», raffigurato quindi con il volto più forte e rude del pescatore. Una sepoltura raffinata, che potrebbe essere ispirata alla basilica dei tre imperatori, dedicata a San Paolo e voluta da Costantino, che nel IV secolo fu costruita poco lontano e andò distrutta nell'Ottocento. Nel cubicolo sono stati scoperti altri due apostoli, forse Giovanni e Giacomo, e ancora un Daniele tra i leoni e il sacrificio di Isacco.

venerdì 5 giugno 2009

Storia dell'albergo Scala di Ferro, viale Regina Margherita - Cagliari

Il complesso edilizio noto come "Scala di Ferro" fu costruito sopra il cinquecentesco bastione di Nostra Signora di Monserrato (chiamato anche bastione "dei morti" o di San Giacomo), sulle antiche mura che proteggevano la zona portuale. Il bastione fu utilizzato dal 1850 dalla Guardia Nazionale come piazza d'armi per poi ospitare, nel 1859, lo Stabilimento Balneare Cerruti, progettato e costruito dall'ingegnere Antonio Cerruti, per dotare la città di bagni pubblici. Le due torri merlate, in stile neogotico, risalgono al 1869, anno dell'inaugurazione, mentre l'avancorpo centrale interno, che si affacciava su un giardino alberato, venne costruito sul finire dello stesso secolo. L'albergo, per mano del ristoratore Luigi Caldanzano, aprì i battenti nell'ottobre del 1877 ma finì all'asta sedici anni più tardi. Successivamente l'ingegner Fulgenzio Setti lo acquistò e introdusse le acque termali nello stabilimento balneare, ripristinò le piscine e restaurò le strutture alberghiere che, nelle stampe pubblicitarie dei primi del Novecento, mutarono il nome in "Castello Setti". Nel 1921 l'albergo ospitò il celebre scrittore D.H. Lawrence durante il suo soggiorno a Cagliari. Nel 1961 la Compagnia Italiana "Jolly Hotels" acquistò il complesso e dopo averlo restaurato, lo chiuse qualche anno più tardi. Dopo anni di abbandono, sulla base del progetto presentato dalla attuale società proprietaria, nell'agosto 2000, in accordo con il Comune di Cagliari, sono iniziati i lavori per la realizzazione della nuova sede della Prefettura con residenza annessa e sottostanti parcheggi.

Durante i lavori di rifacimento del complesso della Scala di Ferro è stato possibile mettere in luce una porzione della necropoli di età romana, già nota da precedenti ritrovamenti e scavi archeologici. Sotto il riempimento cinquecentesco sono emerse diverse tipologie sepolcrali attribuibili a fasi cronologiche distinte. L'area, nel tratto nord-occidentale, ha restituito sepolture a cremazione (in fosse o urne) e ad inumazione, con corredi databili dalla metà del III secolo a.C. al I secolo d.C. Più ad est è stata individuata una piccola area sepolcrale monumentale inviolata, con quattro inumazioni in sarcofago, quattro incinerazioni in cinerari sormontati da cippi ed una mensa in pietrame e calce. I cippi ed i cinerari, in calcare bianco locale, sono ascrivibili ad un arco cronologico compreso tra la fine del I secolo e la prima metà del II secolo d.C., mentre la mensa e i sarcofagi sono stati deposti in epoca successiva. La vita di quest'area dovette continuare ancora dopo la sistemazione dei sarcofagi, nei quali si notano tracce di manomissioni da porre in relazione con successive aperture per nuove deposizioni. Presso l'estremità settentrionale dell'area è venuto alla luce un sepolcro monumentale di pianta quadrangolare costruito con blocchi calcarei squadrati. Il monumento, violato già in antico, presentava all'interno, sei nicchie contenenti urne cinerarie.